Viareggio, 12 gennaio 2010 - "Rajmonda aveva paura di suo marito e per questo aveva deciso con fermezza di separarsi". Lo
sostiene l’avvocato matrimonialista Anna Petroni, dell’omonimo studio
in via Sant’Ambrogio, dalla quale si era rivolta la giovane madre
albanese uccisa la mattina del 31 dicembre dal marito Franco Antonio
Quinci, 35 anni. Il quadro che viene tracciato è inquietante. Un
rapporto finito da tempo, una profonda incomunicabilità fra i due
coniugi, un relazione deteriorata e insanabile condita da minacce
verbali e fisiche di cui la donna era costantemente vittima.
"Rajmonda — ricorda adesso l’avvocato Petroni — venne da me a inizio
di ottobre. Era ferma e decisa nella sua volontà. Come sempre facciamo
in questi casi ho provato a verificare se ci fossero le condizioni per
appianare i dissidi che aveva con il marito. Ma ho subito appurato che
non vi erano margini per ricomporre il rapporto".
Come mai? Cosa le diceva Rajmonda?
"Mi diceva che suo marito la minacciava e la picchiava. Ne ho parlato
anche con i carabinieri. Ma purtroppo, a quanto pare, non ci sono più
tracce dei messaggi che le lasciava. Poi ci sono i maltrattamenti. Non
grandi cose, ma sufficienti per denunciare una persona".
Ma lei non aveva mai denunciato suo marito?
"No. Probabilmente sopportava in silenzio. Come purtroppo fanno
ancora tante donne. Io le avevo consigliato di denunciarlo e comunque le
avevo lasciato i miei numeri telefonici. Le avevo detto di chiamarmi a
qualsiasi ora del giorno o della notte. Ma non l’ha mai fatto".
A che punto era la separazione fra i due?
"Come da prassi avevamo mandato a ottobre una raccomandata direttamente a
lui. Ne ha presa visione, perché abbiamo la ricevuta di ritorno, però
non ha mai risposto. Né lui direttamente, né tramite un legale. Così il 3
dicembre ho depositato in Tribunale il ricorso e a questo punto eravamo
in attesa che il giudice fissasse l’udienza. Di questo ricorso lasciai
una copia a Rajmonda. Di questa copia adesso non c’è traccia".
Potrebbe averla letta lui la mattina del 31?
"Non posso sapere cosa è successo quella mattina. Lui può aver trovato
la copia di Rajmonda. Fra l’altro lei a novemvre aveva fatto richiesta
del patrocinio gratuito a spese dello Stato e lo aveva ottenuto perché
non lavorava. Forse il marito aveva saputo anche questo e in in ogni
caso conosceva la situazione. Forse il 31 è bastato un episodio
particolare, la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso della
sua sopportazione".
Si aspettava un epilogo del genere?
"Fino a questo punto no, ma purtroppo, in base alla mia esperienza
professionale, posso dire che ci sono uomini che accettano molto
difficilmente la separazione".
Eppure non vivevano più da tempo come marito e moglie...
"E’ vero. Rajmonda mi diceva che si chiudeva nella sua cameretta e lì
stava da almeno due anni, senza avere più rapporti col marito. Era a
conoscenza del fatto che il marito aveva avuto problemi psichiatrici nel
suo passato, e questo fatto la preoccupava ancora di più. Io ho
conosciuto una ragazza fisicamente e psichicamente esaurita, ma allo
stesso tempo determinata ad andare avanti nella sua decisione di
lasciare il marito".
Intanto ieri i carabinieri hanno cercato nuove prove nella casa del delitto, a Stiava.
C’erano i Ris e anche il medico legale Stefano Pierotti che, su
incarico della Procura, lunedì aveva effettuato l’autopsia. "Il
sopralluogo — ha detto — è un passaggio necessario per acquisire
ulteriori elementi di valutazione che saranno messi a disposizione del
magistrato".
Paolo Di Grazia - La Nazione -
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