lunedì 21 dicembre 2015

MUTILAZIONI GENITALI: DUE DONNE MASAI IN PRIMA LINEA


Le chiamano nel cuore della notte per fermare le cerimonie del “taglio” e i matrimoni forzati. Così Faith e Lucy, nel sud del Kenya, combattono dalla parte delle bambine.


di Emanuela Zuccalà, Simona Ghizzoni. 

«Nella cultura Masai, per diventare una donna adulta devi passare attraverso il rito della mutilazione genitale». Faith Mpoke ha 33 anni e lavora per ActionAid a Elangata Wuas, una località sperduta nella savana della contea di Kajiado, nel sud del Kenya.
Ogni mattina parte in jeep verso gli enkang, gli accampamenti con le case di fango tonde e buie, a persuadere la sua gente che è ora di guardare al futuro. Cominciando dalla rinuncia a tradizioni foriere di malattie, mortalità materno-infantile, ignoranza e povertà. Come l’emuatare, l’escissione dei genitali femminili che tra i Masai ha una diffusione del 73 per cento (la media nazionale del Kenya è invece del 27) e rappresenta l’anticamera del matrimonio forzato per le bambine a partire dai 10 anni. «Anch’io ho subìto il taglio» ammette Faith «ma mia madre era insegnante e s’è battuta affinché terminassi gli studi».
Poco lontano, a Il Bissil, un’altra donna Masai sottrae le bambine all’emuatare e ai matrimoni precoci: si chiama Lucy Itore ed è la vicepreside della scuola locale. Con il telefono sempre acceso, riceve chiamate d’emergenza dalle sue “spie” negli accampamenti e compie spedizioni notturne, scortata dalla polizia. Nel dormitorio della scuola è riuscita ad accogliere una ventina di piccole fuggitive: la più giovane è Sukuta, data in sposa a nove anni in cambio di cinque vacche. Oggi, andando a scuola, riesce finalmente a sognare un futuro. E così Soila, 13 anni, che sentite cantare nel video: «Era la canzone che mi dava forza quando volevo scappare dal matrimonio» ci ha raccontato. «Dice: non c’è nulla di così difficile che il mio Dio non possa aiutarmi ad affrontare».
Lucy Itore può far studiare queste bambine grazie a un programma di sostegno a distanza: con 420 dollari (circa 380 euro), si copre un intero anno di tasse scolastiche, libri, cibo e vestiti.
UNCUT: UN PROGETTO PER LE DONNE D’AFRICA
Questo video fa parte del progetto multimediale UNCUT sulle mutilazioni genitali femminili, realizzato grazie all’ “Innovation in Development Reporting Grant Program” dello European Journalism Centre (EJC) e alla Bill & Melinda Gates Foundation, in collaborazione con ActionAid e Zona.
Per informazioni: zona.org www.zona.org/it/progetti/uncut/
Su Twitter: #uncutproject
di Emanuela Zuccalà
Foto: Simona Ghizzoni
Mappa: Alessandro D’Alfonso
Ricerca dati: Emanuela Zuccalà, Valeria De Berardinis


NADIA ANJUMAN


Nadia Anjuman, 25 anni, poetessa afghana, il 4 novembre 2005, ad Herat, nel centro occidentale dell’Afghanistan, viene massacrata di botte dal marito per aver osato declamare in pubblico versi tratti da un libro di poesie, che parla d’amore, “Gul-e-dodi’” (Fiore rosso scuro) scritto prima del matrimonio. Nadia, madre di una bimba di 6 mesi, era una tra le più affermate poetesse del paese. La causa della sua morte è da imputarsi a percosse multiple alla testa. La polizia arresta il marito di lei e la suocera, con accusa di omicidio. L’uomo, sostiene che la causa della morte della moglie è il suicidio. Il marito, ricercatore universitario della facoltà di lettere, viene regolarmente processato, e assolto un anno dopo in ultima istanza dalla corte, tornando, dopo un breve soggiorno in carcere, al suo incarico universitario, riabilitato a tutti gli effetti. Per le autorità afgane Nadya è morta d’infarto. O si è suicidata. Non importa poi molto

Durante il regime dei talebani, quando alle donne era proibito studiare e lavorare, Nadia fa parte del cosiddetto “circolo del cucito” della città, che tre volte a settimana si riuniva presso la finta “Scuola di cucito ago d’oro” dove un professore dell’università insegnava quello che apertamente poteva fare in quel periodo solo agli uomini: la letteratura. Nadya ha lasciato due volumi di poesie (è autrice di una seconda raccolta di versi, intitolata ‘Fiori di fumo’ scritta prima di sposarsi). Le sue poesie non sono scritte in arabo ma in lingua farsi, lingua parlata e scritta in Iran e lingua letteraria di una vasta zona fra cui anche l’Afghanistan.

Nadia è stata solo una delle centinaia di vittime della violenza domestica che in Afghanistan continua a perpetrarsi contro le donne, prigioniere di mille libertà negate, e di cui solo ora si comincia finalmente a parlare. Herat (chiamata “Città dei poeti), vanta il primato della più alta percentuale di suicidi femminili. Non avendo a loro disposizione né armi, né farmaci e nemmeno case a più piani, le donne di Herat, per sfuggire al matrimonio a cui sono costrette in giovanissima età, usano il petrolio delle stufe di cucina per darsi fuoco, anticipando con l’unico gesto di autodeterminazione possibile, il proprio omicidio da parte di mariti, fratelli, padri.

 

Brano tratto dall’autobiografia scritta da Nadia:

 

“Nacqui a Harat negli anni più agghiaccianti della rivoluzione; portai a termine i miei studi in anticipo, di due anni, nella scuola superiore “Mahbubeh haravi”. Attualmente frequento il secondo anno della facoltà di Letterature e Scienze Umanistiche dell’Università di Harat. Da quando ho memoria di me so di aver amato la poesia. L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei Talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che appoggiandomi alla penna e zoppicando, componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia. Il sostegno dei miei amici e di coloro che condividevano i miei stessi orizzonti mi hanno permesso di continuare su questo sentiero, ma… ahimè… tuttora, ogniqualvolta che compongo un nuovo passo, sento il tremore della mia penna e con essa trema anche la mia anima. Forse perché non mi sento indenne, temo ancora di sdrucciolarmi lungo il percorso; è difficile la strada che ho davanti a me… ed i miei passi non sono ancora, abbastanza, fermi”.

 

Poesie di Nadia Anjuman

 (Traduzione dal ‘farsi’ in inglese di Mahnaz Badihian, traduzione dallinglese in italiano di Cristina Contilli).


 

 Imprigionata in questo angolo

 I am caged in this corner

 Full of melancholy and sorrow.

My wings are closed and I cannot fly…

Sono imprigionata in questo angolo

Piena di malinconia e di dispiacere.

Le mie ali sono chiuse e non posso volare.

 

Nessuna voglia di parlare

 

No desire to open my mouth

What should I sing of…?

Me, who is hated by life,

No difference to sing or not to sing.

Why should I talk of sweetness?

When I feel bitterness.

Oh, the oppressors feast

Knocked my mouth.

I have no companion in life.

Who can I be sweet for?

No difference to say, to laugh,

To die, to be.

Me and my strained solitude.

With sorrow and sadness.

I was borne for nothingness.

My mouth should be sealed.

Oh my heart, you know it is spring.

And time to celebrate.

What should I do with a trapped wing?

Which does not let me fly.

I have been silent for too long,

But I never forget the melody,

Since every moment I whisper.

The songs from my heart,

Reminding myself of

A day I will break the cage.

Fly from This solitude

And sing like a melancholic.

I am not a weak poplar tree

To be shaken By any wind.

I am an Afghan woman,

Makes sense to moan always.

Nessuna voglia di parlare.

 

Che cosa dovrei cantare?

 

Io, che sono odiata dalla vita.

Non c’è nessuna differenza tra cantare e non cantare.

Perché dovrei parlare di dolcezza?

Quando sento l’amarezza.

L’oppressore si diletta.

Ha battuto la mia bocca.

Non ho un compagno nella vita.

Per chi posso essere dolce?

Non c’è nessuna differenza tra parlare, ridere,

Morire, esistere.

Soltanto io e la mia forzata solitudine

Insieme al dispiacere e alla tristezza.

Sono nata per il nulla.

La mia bocca dovrebbe essere sigillata.

Oh, il mio cuore, lo sapete, è la sorgente.

E il tempo per celebrare.

Cosa dovrei fare con un’ala bloccata?

Che non mi permette di volare.

Sono stata silenziosa troppo a lungo.

Ma non ho dimenticato la melodia,

Perché ogni istante bisbiglio le canzoni del mio cuore

Ricordando a me stessa il giorno in cui romperò la gabbia

Per volare via da questa solitudine

E cantare come una persona malinconica.

Io non sono un debole pioppo

Scosso dal vento

Io sono una donna afgana

E la (mia) sensibilità mi porta a lamentarmi.

 

Traduzione dal farsi in italiano di Amir e Sashinka Gorguinpour.

 

Ricordi azzurro – chiari

 

 Oh esiliati dell’anonima montagna,

Oh gioielli dai nomi soffocati nella palude del silenzio,

Oh voi, di cui il ricordo pallido si è smarrito

nell’acqua torbida del mare della dimenticanza,

dov’è finita la limpida origine dei vostri pensieri?

Quale mano devastante si è portata via i vostri volti aurei? In questo vortice, artefice del buio,

dov’è finita la vostra calma lunare?

Se, dopo questo tormento, portatore di morte,

il mare si calmasse,

se le nuvole si svuotassero di sofferenza,

se la luna portasse affetto,

giungerebbe il sorriso? Se il cuore della montagna si intenerisse,

crescerebbe l’erba e ci sarebbe l’abbondanza?

Sulle sue alte vette, uno dei vostri nomi diverrebbe il faro?

La comparsa dei vostri ricordi azzurro – chiari,

darebbe speranza agli occhi stanchi dei pesci spaventati

dal tumulto del torrente?

 

Catene d’acciaio

Quante volte è stata tolta dalle labbra

la mia canzone e quante volte è stato

azzittito il sussurro del mio spirito poetico!

Il significato della gioia è stato

sepolto dalla febbre della tristezza. Se con i miei versi tu notassi una luce:

questa sarebbe il frutto delle mie profonde immaginazioni.

Le mie lacrime non sono servite a niente

e non mi rimane altro che la speranza. Nonostante io sia figlia della città della poesia,

i miei versi furono mediocri.

La mia opera è come una pianta priva di cure,

da cui non si può pretendere molto. Nell’archivio della storia,

questo è tutto ciò che mi rappresenta.

 

(IL MATERIALE E’ TRATTO DA C. CONTILLI-I. SCARPAROLO (A CURA), “ELEGIA PER NADIA ANJUMAN”, TORINO, EDIZIONI CARTA E PENNA, 2006).

venerdì 11 dicembre 2015

"MI CHIAMO NOJOOM, HO 10 ANNI E VOGLIO IL DIVORZIO".- FILM-

La regista yemenita Khadija al-Salami


«Accendendo la telecamera dò la possibilità di sentire la loro voce. Ma è anche un modo per educare i genitori e aiutare le bambine a ribellarsi», dice la regista yemenita Khadija al-Salami, che ci racconta il film nelle sale italiane a marzo "MI CHIAMO NOJOOM, HO 10 ANNI E VOGLIO IL DIVORZIO".


«Quando la mia famiglia mi ha dato in sposa avevo otto anni. Non capivo come potessero avere autorizzato quello che, di fatto, era uno stupro. La stessa cosa era successa a mia madre ma non aveva gli strumenti culturali per impedire che quell’orrore – che aveva vissuto sulla sua pelle – fosse rivissuto dalla figlia. Avevo provato a chiedere aiuto alla nonna ma, per quanto mi amasse, era stata irremovibile: il destino di una donna è sposarsi, oppure finire sottoterra». Con queste parole, drammatiche, la regista yemenita Khadija al-Salami si rivolge al pubblico del festival Sotto18 (rivolto ai ragazzi) di Torino.
La pellicola appena proiettata è Mi chiamo Nojoom, ho 10 anni e voglio il divorzio, nelle sale italiane a marzo. Ecco la trama. Una bambina entra in un’aula di un tribunale, guarda il giudice dritto negli occhi e dice: «Voglio il divorzio». Tre settimane prima era stata costretta a sposare un uomo di 30 anni che ha pagato una dote alla famiglia (povera) della bambina. Per tutti si tratta di un accordo legittimo e soddisfacente. Tranne che per Nojoom che vedrà presto la sua vita volgere al peggio. Il film racconta la battaglia di questa sposa bambina per ottenere il divorzio.

Una scena del film: Nojoom mostra l’anello di fidanzamento alla compagna di giochi


La trama si intreccia alle vicende personali della regista: a undici anni divorzia, si iscrive a scuola e intanto lavora in una televisione yemenita, dove conduce un programma per bambini. Con lo stipendio mantiene la madre (divorziata). Dopo qualche anno vince una borsa di studio e si trasferisce negli Stati Uniti per frequentare il liceo. Khadija è una donna sorridente, disponibile. Anche con i ragazzini, tant’è che ha trascorso due ore con gli allievi di una scuola media torinese. Qui, di seguito, le domande a raffica di maschi e femmine, incuriositi dalla sua storia e da alcune parti del film proiettati nell’aula magna.
Come si chiama la protagonista?
Nel film è Nojoom (in arabo vuol dire stella), un nome molto vicino a quello della bambina (Nojood, vuol dire nascosta) a cui è ispirato il film.
Che cosa c’è di vero in questo film?
È basato su una storia vera, raccontata nel libro I am Nojood, age 10 and divorced di Nojoud Ali e della giornalista Delphine Minoui – pubblicato il 22 gennaio 2009 da Michel Lafon, tradotto in 17 lingue e venduto in 35 paesi.
Lei ha conosciuto Nojood?
Sì, le ho raccontato di avere vissuto le stesse sue esperienze e ho voluto incoraggiarla.
In che anno è ambientato il film?
Nojood riesce a ottenere il divorzio nel 2008, ma le riprese del film sono del 2014: ho passato parecchio tempo per acquisire i diritti cinematografici.

Una scena dal film: la prima notte di nozze

Quali motivazioni possono spingere un uomo maturo a sposare una bambina?
Vuole crescerla a modo suo. Un’educazione di cui, nel film come nella realtà, si occupano le suocere perché le nuore rappresentano un aiuto in casa e nei campi.
Perché è il marito a scegliere l’abito da sposa?
È la nostra tradizione, in Yemen: il marito offre l’abito e i gioielli. In questi anni qualcosa sta cambiando e oggi le ragazze istruite scelgono da sole che cosa indossare per le nozze.
Il marito la ama?
Non è un matrimonio d’amore, e comunque lei lo detesta.
Che cosa fa Nojoom nella casa del marito, non potendo frequentare la scuola?
Con una tanica di plastica, va al torrente a prendere l’acqua. Lavora nei campi. Pulisce casa. Prepara il pane.
La legge yemenita permette queste unioni?
Non vieta i matrimoni delle bambine, queste unioni sono autorizzate.
Quello delle spose bambine è un fenomeno diffuso?
Ogni secondo nel mondo c’è una bambina che viene data sposa.
Verso la fine, in tribunale arriva lo sheykh (il capovillaggio) che tira in ballo la tradizione e l’Islam…
La legge islamica proibisce il male e chiede ai fedeli di difendere i più deboli ma in Yemen a imporsi è la tradizione tribale. Lo sheykh dice che il matrimonio di Nojoom e Adel è valido. Allora il giudice chiede allo sheykh: «Se questa ragazzina fosse venuta a chiederle aiuto, che cosa avrebbe fatto? In altri termini, gli chiede di agire secondo coscienza. Di fatto, il giudice getta la palla nel campo dello sheykh e fa in modo che sia lui a decidere. Questa scena è frutto della mia immaginazione, nella realtà Nojood ha avuto fortuna e incontrato un giudice che l’ha aiutata, nessun capo tribale è intervenuto in tribunale. Volevo che gli spettatori si rendessero conto dell’importanza degli sheykh.
Che cosa fa il marito, dopo il divorzio?
Ottiene la restituzione del prezzo della sposa, ovvero della cifra che ha versato al padre di Nojoom. Il padre della bambina è un uomo povero, quei soldi li ha usati per pagare i debiti e l’affitto. Nella realtà è intervenuto un donatore dagli Emirati Arabi che ha versato la somma chiesta dal marito, erano i risparmi di anni di lavoro nei campi.
Perché tanti suoi documentari si occupano delle donne yemenite?
La loro situazione è drammatica. Accendendo la telecamera dò la possibilità di rompere il velo, così possiamo sentire la loro voce. Ma è anche un modo per creare consapevolezza, educare i genitori e aiutare le bambine a ribellarsi.
Si ribellano?
Sì, la bambina che nel film gioca con Nojoom viene a sapere – nella realtà – che sarà data sposa a un uomo. Avendo partecipato alle riprese, ed essendo venuta a conoscenza del fatto che divorziare è possibile, scappa di casa, gira un video con un telefonino e lo carica su Youtube. Dapprima è scandalo, tra i famigliari e i vicini di casa, ma riesce ad evitare il matrimonio precoce. In un paese in cui non sa leggere né scrivere il 65 percento degli uomini e il 75 percento delle donne, le immagini superano le barriere dell’analfabetismo.

Una scena dal film: Nojoom quando arriva nella capitale Sanaa

Trovare una giovane attrice per interpretare il ruolo della protagonista è stato complicato?
È stato frustrante, in Yemen ho una fondazione che si occupa dell’istruzione di 558 bambine ma non c’è stato verso di convincere i loro genitori. Alla fine a darmi una mano è stata mia sorella proponendomi di far recitare le sue due figlie: la piccola di cinque anni e la grande di dieci. Coinvolgerle è servito, e oggi nella mia famiglia tutte le ragazze vogliono seguire le orme di zia Khadija: rifiutano i matrimoni combinati, vogliono sposarsi per amore.
E gli altri attori?
Alcuni avevano partecipato a trasmissioni televisive, non erano naturali nella recitazione, e quindi anche per loro è stata un’esperienza nuova.
Quanto è stato difficile fare le riprese in Yemen?
Un incubo: non sono riuscita a ottenere le autorizzazioni e quindi ho dovuto fare tutto di nascosto. La corrente elettrica non c’è sempre e tanto meno nei villaggi, ho comprato un generatore al mercato nero. Per raggiungere i villaggi le strade sono pietrose, serve un camion e così ho dovuto prenderne uno a noleggio ma si è rotto. Da un paesino siamo stati cacciati a sassate. In un altro un uomo è salito sul tetto e quando ha visto la luce che illuminava la scena, è caduto ed è morto: ho dovuto pagare le spese del funerale e il prezzo del sangue (il risarcimento in denaro alla famiglia) perché per quella gente era colpa mia. Tutto molto faticoso.
Il film è stato mostrato in Yemen?
Doveva essere proiettato lo scorso marzo ma i sauditi hanno attaccato lo Yemen e scatenato un conflitto che ha causato la morte di oltre seimila persone, soprattutto civili. La guerra ha preso il sopravvento, in questo momento la popolazione ha altre priorità. Affinché sia promulgata la legge per vietare i matrimoni delle bambine bisognerà aspettare la fine dei bombardamenti. Ma intanto il film andrà in onda su un canale satellitare in arabo e quindi lo vedranno tutti.
Gli yemeniti si sono arrabbiati per questo film?
Qualcuno sì, certamente. In Egitto ho incontrato una donna yemenita che si era rifugiata lì per sfuggire ai bombardamenti: mi ha accusata di non dare un’immagine positiva del nostro paese e mi ha invitata a girare un film sulla regina di Saba. Le ho risposto che è mio dovere sensibilizzare l’opinione pubblica sulle questioni di attualità.
Perché le autorità yemenite non vogliono che si parli delle spose bambine?
Sono temi sensibili, come la yemenita che ho incontrato in Egitto, anche loro vogliono dare un’immagine positiva del paese. E poi una parte del governo si batte per evitare che sia promulgata la legge per vietare i matrimoni precoci mentre il mio film dà una mano al fronte opposto, quello della legalità.

di Farian Sabahi



venerdì 20 novembre 2015

FONDI ANTI-VIOLENZA: DOVE SONO FINITI I SOLDI? REGIONI ANCORA POCO TRASPARENTI



 
Solo in 10 Regioni italiane si può consultare la lista delle strutture che hanno beneficiato dei fondi statali per il contrasto alla violenza sulle donne. E solo la metà di queste – Veneto, Piemonte, Sardegna, Sicilia e Puglia – hanno pubblicato online i nomi di ciascun centro con le risorse ricevute.
La trasparenza rimane un miraggio in un ambito, quello degli abusi di genere, dove ci si chiede come si possano supportare davvero le vittime quando ancora non abbiamo certezze sul destino dei 16 milioni e mezzo di euro stanziati dal governo con la legge sul femminicidio, nell’ormai lontano 2013.
A tenere sotto costante monitoraggio la questione è ActionAid con la campagna #donnechecontano, che Iodonna.it sta seguendo fin dal lancio, un anno fa: una piattaforma opendata per indagare sulla spesa dei fondi anti-violenza e rendere tutti partecipi dei risultati.
Questa mattina le ultime novità vengono presentate a Roma a Palazzo Chigi, durante il convegno “Sulla violenza voglio vederci chiaro”. Parteciperanno anche la rete dei centri anti-violenza D.i.Re, l’associazione di esperte di opendata Wister e la responsabile alle Pari opportunità del governo, Giovanna Martelli.
Per 5 Regioni, i dati arrivano proprio dai loro siti web. Per altre, sono stati dedotti dalle delibere. “Il quadro degli investimenti risulta tuttora parziale e disomogeneo” spiega Rossana Scaricabarozzi, responsabile del programma per i diritti delle donne di ActionAid Italia. Che sottolinea come la trasparenza non sia affatto un dettaglio: “Al contrario, è un presupposto importante per valutare le iniziative messe in campo e il loro impatto, oltre che per indirizzare le scelte future delle amministrazioni. L’analisi dei dati mostra infatti quanto siano diverse le scelte delle varie Regioni: a ogni centro anti-violenza e casa rifugio, per esempio, il Piemonte destina in media 60mila euro, a fronte dei 30mila di Veneto e Sardegna, dei 12mila della Puglia, degli 8mila della Sicilia. Queste strategie tanto differenti rischiano di creare disparità territoriali nell’assicurare servizi adeguati alle donne. C’è poi il caso del Veneto, campione di trasparenza, che però ha emanato bandi solo per progetti annuali, quando forse sarebbe stato meglio assicurare continuità agli interventi contro la violenza di genere”.
Il dipartimento per le Pari opportunità del Consiglio dei ministri, un mese fa, assicurava alle associazione che stava per pubblicare sul proprio sito tutte le rendicontazioni regionali, ma ancora non lo ha fatto. E tra non molto si accavalleranno nuovi quesiti, legati agli ulteriori 30 milioni di euro per l’attuazione del Piano anti-violenza varato quest’anno. Senza contare i fondi previsti per il 2015, ancora non erogati. “È  inoltre necessaria una mappatura accurata dei centri anti-violenza e fondi adeguati per il loro funzionamento” aggiunge l’esperta di ActionAid, “alla luce dei dati contraddittori rispetto alle strutture presenti nelle varie Regioni”.
di Emanuela Zuccalà