Da vent’anni un conflitto insanguina l’est della Repubblica democratica del Congo. La guerra logora il Paese e lo stupro è utilizzato come un’arma da tutti gli schieramenti.
Il corpo della donna si è trasformato in un nuovo, insanguinato, campo
di battaglia: donne, anche giovanissime, pagano il prezzo più alto sulla
propria pelle. “Muganga – La guerra del dottor Mukwege”, edito da Fandango, è il saggio della giornalista belga Colette Braeckman che racconta la storia di Denis Mukwege, il dottore – questo è il significato di ‘muganga’- che ha fondato e dirige l’ospedale Panzi Hospital nel Kivu Sud, il ginecologo che da oltre quindici anni, “cuce e ripara” le donne. E che è stato insignito del premio Sacharov, oltre ad avere ricevuto molti altri riconoscimenti, tra cui il Premio Internazionale Primo Levi e ad essere stato candidato al Nobel per la Pace.
Ascolta le storie delle sue pazienti, quando può prega, s’indigna ma non si rassegna. Al Festival Internazionale di Ferrara il dottor Mukwege ha raccontato a ilfattoquotidiano.it
che le donne che arrivano nel suo ospedale “sono estremamente
traumatizzate, fisicamente violate e molto chiuse in se stesse. Il primo
approccio perciò non può essere di un uomo. C’è sempre una donna che
instaura una relazione esclusiva con la paziente. Dopo aver stabilito un
rapporto di fiducia si procedere con il check medico: analisi per l’Hiv e controllo delle ferite”. Il primo obiettivo è curare e, se necessario, intervenire chirurgicamente.
Concluso il trattamento medico comincia quello che il dottore
definisce il “lavoro difficile”, poiché nessuna ammetterà di avere un problema psicologico.
“Sappiamo che c’è un trauma. Per questo l’ospedale si avvale
dell’assistenza psicologica operativa. Possiamo stabilire quando una
paziente è guarita fisicamente, ma non sappiamo quando potrà dirsi
libera da traumi. Ricordo una donna che è stata violentata davanti a suo
nipote piccolo. Di tutte le sofferenze patite quella era irreparabile”.
Nel corso degli anni il dottor Mukwege ha ricevuto diversi riconoscimenti per il suo lavoro, tra cui il premio dei Diritti umani dell’Onu. Nel 2012 è stato vittima di un agguato mentre tornava a casa, in pieno centro di Bukavu,
in cui la sua guardia del corpo è rimasta uccisa. Grazie all’aiuto
della gente del quartiere è riuscito a salvarsi e sfuggire dagli uomini
che volevano rapirlo. Da allora la sua vita è cambiata
irrimediabilmente: “Non vivo più a casa mia ma in ospedale, non mi muovo liberamente e quando devo uscire ho sempre la scorta. Mi sento come in prigione”.
Eppure la forza delle donne lo fa andare avanti. “Sono le donne che
mi hanno sostenuto anche dopo l’attentato e che hanno fatto pressione in
tutto il mondo perché io tornassi in Congo a lavorare nell’ospedale. Loro mi vogliono proteggere, insieme ai militari, combattono per i loro bambini, per la comunità, per le altre donne
e anche per me. E’ così commovente. Da loro ho imparato a pensare agli
altri. Quando riprendono conoscenza, dopo tutto quello che hanno subito,
la prima domanda che fanno non è mai per se stesse, mai ‘che ne sarà
del mio futuro?’, ma sempre ‘come stanno i miei bambini, i miei genitori o mio marito‘”. Loro non danno solo la vita, la proteggono“.
Nonostante l’orrore che segna la quotidianità di medico e pazienti,
Muganga parla anche di sorrisi: “Dopo il trattamento della fistola”, la
patologia più frequente tra le sue pazienti, “le donne tornano da me
con un sorriso smagliante per dirmi che possono finalmente urinare da
sole. Lo dicono sorridendo. Dicono che è come nascere di nuovo. Tutto
questo per me non ha prezzo”. E infine il suo augurio: “Vorrei che il
mondo ci aiutasse a combattere contro l’impunità, impunità non solo
verso i balordi che stuprano ma soprattutto verso chi dà gli ordini di stuprare”.
Angela
Cotticelli | 22 ottobre 2014