giovedì 11 dicembre 2014

STUPRO, MUKWEGE IL MEDICO CHE “CUCE E RIPARA” LE DONNE IN CONGO

Da vent’anni un conflitto insanguina l’est della Repubblica democratica del Congo. La guerra logora il Paese e lo stupro è utilizzato come un’arma da tutti gli schieramenti. Il corpo della donna si è trasformato in un nuovo, insanguinato, campo di battaglia: donne, anche giovanissime, pagano il prezzo più alto sulla propria pelle. “Muganga – La guerra del dottor Mukwege”, edito da Fandango, è il saggio della giornalista belga Colette Braeckman che racconta la storia di Denis Mukwege, il dottore – questo è il significato di ‘muganga’- che ha fondato e dirige l’ospedale Panzi Hospital nel Kivu Sud, il ginecologo che da oltre quindici anni, “cuce e ripara” le donne. E che è stato insignito del premio Sacharov, oltre ad avere ricevuto molti altri riconoscimenti, tra cui il Premio Internazionale Primo Levi e ad essere stato candidato al Nobel per la Pace.
Ascolta le storie delle sue pazienti, quando può prega, s’indigna ma non si rassegna. Al Festival Internazionale di Ferrara il dottor Mukwege ha raccontato a ilfattoquotidiano.it che le donne che arrivano nel suo ospedale “sono estremamente traumatizzate, fisicamente violate e molto chiuse in se stesse. Il primo approccio perciò non può essere di un uomo. C’è sempre una donna che instaura una relazione esclusiva con la paziente. Dopo aver stabilito un rapporto di fiducia si procedere con il check medico: analisi per l’Hiv e controllo delle ferite”. Il primo obiettivo è curare e, se necessario, intervenire chirurgicamente.
Concluso il trattamento medico comincia quello che il dottore definisce il “lavoro difficile”, poiché nessuna ammetterà di avere un problema psicologico. “Sappiamo che c’è un trauma. Per questo l’ospedale si avvale dell’assistenza psicologica operativa. Possiamo stabilire quando una paziente è guarita fisicamente, ma non sappiamo quando potrà dirsi libera da traumi. Ricordo una donna che è stata violentata davanti a suo nipote piccolo. Di tutte le sofferenze patite quella era irreparabile”.
Nel corso degli anni il dottor Mukwege ha ricevuto diversi riconoscimenti per il suo lavoro, tra cui il premio dei Diritti umani dell’Onu. Nel 2012 è stato vittima di un agguato mentre tornava a casa, in pieno centro di Bukavu, in cui la sua guardia del corpo è rimasta uccisa. Grazie all’aiuto della gente del quartiere è riuscito a salvarsi e sfuggire dagli uomini che volevano rapirlo. Da allora la sua vita è cambiata irrimediabilmente: “Non vivo più a casa mia ma in ospedale, non mi muovo liberamente e quando devo uscire ho sempre la scorta. Mi sento come in prigione”.
Eppure la forza delle donne lo fa andare avanti. “Sono le donne che mi hanno sostenuto anche dopo l’attentato e che hanno fatto pressione in tutto il mondo perché io tornassi in Congo a lavorare nell’ospedale. Loro mi vogliono proteggere, insieme ai militari, combattono per i loro bambini, per la comunità, per le altre donne e anche per me. E’ così commovente. Da loro ho imparato a pensare agli altri. Quando riprendono conoscenza, dopo tutto quello che hanno subito, la prima domanda che fanno non è mai per se stesse, mai ‘che ne sarà del mio futuro?’, ma sempre ‘come stanno i miei bambini, i miei genitori o mio marito‘”. Loro non danno solo la vita, la proteggono“.
Nonostante l’orrore che segna la quotidianità di medico e pazienti, Muganga parla anche di sorrisi: “Dopo il trattamento della fistola”, la patologia più frequente tra le sue pazienti, “le donne tornano da me con un sorriso smagliante per dirmi che possono finalmente urinare da sole. Lo dicono sorridendo. Dicono che è come nascere di nuovo. Tutto questo per me non ha prezzo”. E infine il suo augurio: “Vorrei che il mondo ci aiutasse a combattere contro l’impunità, impunità non solo verso i balordi che stuprano ma soprattutto verso chi dà gli ordini di stuprare”.



Angela Cotticelli | 22 ottobre 2014

domenica 7 dicembre 2014

KINTSUGI - LA BELLEZZA DELLE FERITE

Tendiamo a nascondere le nostre ferite. Il nostro dolore, per non riviverlo, dimenticare. La filosofia occidentale considera le cicatrici come un qualcosa da eliminare o da occultare. Qualcosa di disarmonico che rovina la figura, che non va mostrato e valorizzato. Un punto debole, invece che un punto di forza. Ci mostriamo forti, inscalfibili, ci descriviamo come guerrieri, così saldi e statuari dentro le nostre grandi, luccicanti e sfarzose armature, senza ferite di guerra ma con tanti trofei. Trofei? E se questi trofei non fossero quelli ammassati sopra una libreria? Se fossero al di sotto delle armature? Se fosse altro di noi a dover scintillare?


La risposta è nel Kintsugi (o Kintsukuroi), letteralmente "riparare con l'oro". E' la pratica giapponese che consiste nel riparare gli oggetti rotti con materiali preziosi, oro e argento colato, per risaltarne le crepe, le spaccature. Ogni oggetto ritrova l'unicità, diventa speciale per l'intreccio casuale e unico della molteplicità delle proprie ferite. L'imperfezione di queste, diventa perfezione, estetica esteriore ed interiore, un elemento da valorizzare, invece che da nascondere. Per i giapponesi, quindi, quando qualcosa si rompe, subisce e racconta una storia, diventa più bello, più prezioso, più raro. La ferita non è più una colpa, qualcosa di cui vergognarsi, ma è un simbolo, uno stemma da portare con fierezza. 

La vita è integrità, ma è anche rottura. E non sarebbe tale senza cadute rovinose, e rialzate leggendarie. Il dolore può essere una grande parte della nostra vita, ci insegna, ci segna, e ci urla che siamo vivi, che ci siamo, e che stiamo vivendo ciò che abbiamo attorno, ciò che respiriamo. Quante volte persi nel buio ci
siamo detti "non ce la farò a uscirne", e invece ce l'abbiamo fatta. Quante volte feriti dall'amore, dall'amicizia, dai sogni e dalle delusioni che a volte comportano abbiamo pensato di smettere di credere, di lottare, e quindi di vivere la vita con quello struggle che la rende difficile, ma meravigliosa. Le ferite ci rendono ciò che siamo, temprano il nostro coraggio e la nostra forza, ci fanno capire quanto di noi siamo disposti a mettere in gioco e quanto di noi siamo disposti a lasciare scoperto, senza difese, per correre il rischio di realizzare un nostro sogno, di renderci felici
Quanto mi piacerebbe se allora, invece di nascondere ciò che ci ha ferito, lo valorizzassimo, come quei vasi di ceramica con tessiture d'oro che i giapponesi riparano con tanto amore e dedizione; se mostrassimo ciò che la vita, a volte ingiusta, ci ha posto davanti, e come l'abbiamo saputo affrontare

Saremo allora dei grandi guerrieri, con grandi, luccicanti e sfarzose armature, e con grandi, luccicanti e sfarzose ferite d'oro, che proteggono di più di qualsiasi corazza. 

mercoledì 3 dicembre 2014

¡NI UNA MÀS! NON UNA IN PIÙ!



La violenza subita dalle donne è una delle violazioni dei Diritti Umani più diffuse che nega il diritto delle donne all'uguaglianza, alla dignità, all'autostima, alla sicurezza e al loro diritto di godere delle libertà fondamentali.
Se ancora oggi abbiamo una data per ricordare la violenza fatta alle donne, vuol dire che abbiamo ancora tanta strada da percorrere, vuol dire che molto resta ancora da fare, con più forza, con più determinazione, con l’azione vigile di tutti.
Il rapporto Eures, pubblicato alcuni giorni fa, parla chiaro: i femminicidi sono aumentati, il 2013 è stato un anno nero, 179 donne uccise, in pratica una vittima ogni due giorni.
Un bollettino di guerra.