La pellicola appena
proiettata è
Mi chiamo Nojoom,
ho 10 anni e voglio il
divorzio, nelle sale italiane a marzo. Ecco la trama. Una bambina
entra in un’aula di un tribunale, guarda il giudice dritto negli occhi e dice:
«Voglio il divorzio». Tre settimane prima era stata costretta a sposare un uomo
di 30 anni che ha pagato una dote alla famiglia (povera) della bambina. Per
tutti si tratta di un accordo legittimo e soddisfacente. Tranne che per Nojoom
che vedrà presto la sua vita volgere al peggio. Il film racconta la battaglia
di questa sposa bambina per ottenere il divorzio.
|
Una scena del film: Nojoom mostra l’anello di fidanzamento alla compagna di giochi |
La trama si
intreccia alle vicende personali della regista: a undici anni divorzia, si
iscrive a scuola e intanto lavora in una televisione yemenita, dove conduce un
programma per bambini. Con lo stipendio mantiene la madre (divorziata). Dopo
qualche anno vince una borsa di studio e si trasferisce negli Stati Uniti per
frequentare il liceo. Khadija è una donna sorridente, disponibile. Anche con i
ragazzini, tant’è che ha trascorso due ore con gli allievi di una scuola media
torinese. Qui, di seguito, le domande a raffica di maschi e femmine,
incuriositi dalla sua storia e da alcune parti del film proiettati nell’aula
magna.
Come si chiama la protagonista?
Nel film è Nojoom (in arabo vuol dire stella), un nome molto
vicino a quello della bambina (Nojood, vuol dire nascosta) a cui è ispirato il
film.
Che cosa c’è di vero in questo film?
È basato su una storia vera, raccontata nel libro I am
Nojood, age 10 and divorced di Nojoud Ali e della giornalista Delphine
Minoui – pubblicato il 22 gennaio 2009 da Michel Lafon, tradotto in 17 lingue e
venduto in 35 paesi.
Lei ha conosciuto Nojood?
Sì, le ho raccontato di avere vissuto le stesse sue esperienze e ho voluto
incoraggiarla.
In che anno è ambientato il film?
Nojood riesce a ottenere il divorzio nel 2008, ma le riprese del film sono
del 2014: ho passato parecchio tempo per acquisire i diritti cinematografici.
|
Una scena dal film: la prima notte di nozze |
Quali motivazioni possono spingere un uomo maturo a sposare una
bambina?
Vuole crescerla a modo suo. Un’educazione di cui, nel film come nella realtà,
si occupano le suocere perché le nuore rappresentano un aiuto in casa e nei
campi.
Perché è il marito a scegliere l’abito da sposa?
È la nostra tradizione, in Yemen: il marito offre l’abito e i gioielli. In
questi anni qualcosa sta cambiando e oggi le ragazze istruite scelgono da sole
che cosa indossare per le nozze.
Il marito la ama?
Non è un matrimonio d’amore, e comunque lei lo detesta.
Che cosa fa Nojoom nella casa del marito, non potendo frequentare la
scuola?
Con una tanica di plastica, va al torrente a prendere l’acqua. Lavora nei
campi. Pulisce casa. Prepara il pane.
La legge yemenita permette queste unioni?
Non vieta i matrimoni delle bambine, queste unioni sono autorizzate.
Quello delle spose bambine è un fenomeno diffuso?
Ogni secondo nel mondo c’è una bambina che viene data sposa.
Verso la fine, in tribunale arriva lo sheykh (il capovillaggio) che
tira in ballo la tradizione e l’Islam…
La legge islamica proibisce il male e chiede ai fedeli di difendere i più
deboli ma in Yemen a imporsi è la tradizione tribale. Lo sheykh dice che il
matrimonio di Nojoom e Adel è valido. Allora il giudice chiede allo sheykh: «Se
questa ragazzina fosse venuta a chiederle aiuto, che cosa avrebbe fatto? In
altri termini, gli chiede di agire secondo coscienza. Di fatto, il giudice
getta la palla nel campo dello sheykh e fa in modo che sia lui a decidere.
Questa scena è frutto della mia immaginazione, nella realtà Nojood ha avuto
fortuna e incontrato un giudice che l’ha aiutata, nessun capo tribale è
intervenuto in tribunale. Volevo che gli spettatori si rendessero conto
dell’importanza degli sheykh.
Che cosa fa il marito, dopo il divorzio?
Ottiene la restituzione del prezzo della sposa, ovvero della cifra che ha
versato al padre di Nojoom. Il padre della bambina è un uomo povero, quei soldi
li ha usati per pagare i debiti e l’affitto. Nella realtà è intervenuto un
donatore dagli Emirati Arabi che ha versato la somma chiesta dal marito, erano
i risparmi di anni di lavoro nei campi.
Perché tanti suoi documentari si occupano delle donne yemenite?
La loro situazione è drammatica. Accendendo la telecamera dò la possibilità
di rompere il velo, così possiamo sentire la loro voce. Ma è anche un modo per
creare consapevolezza, educare i genitori e aiutare le bambine a ribellarsi.
Si ribellano?
Sì, la bambina che nel film gioca con Nojoom viene a sapere – nella realtà
– che sarà data sposa a un uomo. Avendo partecipato alle riprese, ed essendo
venuta a conoscenza del fatto che divorziare è possibile, scappa di casa, gira
un video con un telefonino e lo carica su Youtube. Dapprima è scandalo, tra i
famigliari e i vicini di casa, ma riesce ad evitare il matrimonio precoce. In
un paese in cui non sa leggere né scrivere il 65 percento degli uomini e il 75
percento delle donne, le immagini superano le barriere dell’analfabetismo.
|
Una scena dal film: Nojoom quando arriva nella capitale Sanaa |
Trovare una giovane attrice per interpretare il ruolo della
protagonista è stato complicato?
È stato frustrante, in Yemen ho una fondazione che si occupa
dell’istruzione di 558 bambine ma non c’è stato verso di convincere i loro
genitori. Alla fine a darmi una mano è stata mia sorella proponendomi di far
recitare le sue due figlie: la piccola di cinque anni e la grande di dieci.
Coinvolgerle è servito, e oggi nella mia famiglia tutte le ragazze vogliono
seguire le orme di zia Khadija: rifiutano i matrimoni combinati, vogliono
sposarsi per amore.
E gli altri attori?
Alcuni avevano partecipato a trasmissioni televisive, non erano naturali
nella recitazione, e quindi anche per loro è stata un’esperienza nuova.
Quanto è stato difficile fare le riprese in Yemen?
Un incubo: non sono riuscita a ottenere le autorizzazioni e quindi ho dovuto
fare tutto di nascosto. La corrente elettrica non c’è sempre e tanto meno nei
villaggi, ho comprato un generatore al mercato nero. Per raggiungere i villaggi
le strade sono pietrose, serve un camion e così ho dovuto prenderne uno a
noleggio ma si è rotto. Da un paesino siamo stati cacciati a sassate. In un
altro un uomo è salito sul tetto e quando ha visto la luce che illuminava la
scena, è caduto ed è morto: ho dovuto pagare le spese del funerale e il prezzo
del sangue (il risarcimento in denaro alla famiglia) perché per quella gente era
colpa mia. Tutto molto faticoso.
Il film è stato mostrato in Yemen?
Doveva essere proiettato lo scorso marzo ma i sauditi hanno attaccato lo
Yemen e scatenato un conflitto che ha causato la morte di oltre seimila
persone, soprattutto civili. La guerra ha preso il sopravvento, in questo
momento la popolazione ha altre priorità. Affinché sia promulgata la legge per
vietare i matrimoni delle bambine bisognerà aspettare la fine dei
bombardamenti. Ma intanto il film andrà in onda su un canale satellitare in arabo
e quindi lo vedranno tutti.
Gli yemeniti si sono arrabbiati per questo film?
Qualcuno sì, certamente. In Egitto ho incontrato una donna yemenita che si
era rifugiata lì per sfuggire ai bombardamenti: mi ha accusata di non dare
un’immagine positiva del nostro paese e mi ha invitata a girare un film sulla
regina di Saba. Le ho risposto che è mio dovere sensibilizzare l’opinione
pubblica sulle questioni di attualità.
Perché le autorità yemenite non vogliono che si parli delle spose
bambine?
Sono temi sensibili, come la yemenita che ho incontrato in Egitto, anche
loro vogliono dare un’immagine positiva del paese. E poi una parte del governo
si batte per evitare che sia promulgata la legge per vietare i matrimoni
precoci mentre il mio film dà una mano al fronte opposto, quello della
legalità.
di Farian Sabahi