Il
femminicidio raccontato duemila anni fa
In quelle lapidi i delitti nell’antica Roma
In quelle lapidi i delitti nell’antica Roma
Uno studio sulle iscrizioni
funerarie ha ricostruito le storie di alcune donne assassinate dai mariti. A
conferma di un retaggio culturale che affonda le radici nei secoli davvero
difficile da estirpare
di
Paolo Fantauzzi
da
L’Espresso
Quando la scorsa primavera fu uccisa dall’ex fidanzato, che
dopo averla accoltellata le diede fuoco mentre era ancora in vita, Fabiana
Luzzi non aveva ancora 17 anni. Proprio come Prima Florenzia, gettata nel
Tevere da suo marito Orfeo. Un tragico destino che accomuna due adolescenti che
si erano appena affacciate alla vita ma separate fra loro da quasi duemila
anni.
Di Prima Florenzia, vissuta al tempo della Roma imperiale, non si sa praticamente nulla. Non c’è modo di capire cosa possa aver spinto il consorte a ucciderla e se fu poi condannato per l’orrendo delitto. L’unica cosa rimasta della sua triste sorte sono le poche righe fatte incidere dalla famiglia in una iscrizione funeraria ritrovata nella necropoli di Isola Sacra, a Fiumicino, dove abitava: “Restuto Piscinese e Prima Restuta posero a Prima Florenzia, figlia carissima, che fu gettata nel Tevere dal marito Orfeo. Il cognato Dicembre pose. Ella visse sedici anni e mezzo”.
Di Prima Florenzia, vissuta al tempo della Roma imperiale, non si sa praticamente nulla. Non c’è modo di capire cosa possa aver spinto il consorte a ucciderla e se fu poi condannato per l’orrendo delitto. L’unica cosa rimasta della sua triste sorte sono le poche righe fatte incidere dalla famiglia in una iscrizione funeraria ritrovata nella necropoli di Isola Sacra, a Fiumicino, dove abitava: “Restuto Piscinese e Prima Restuta posero a Prima Florenzia, figlia carissima, che fu gettata nel Tevere dal marito Orfeo. Il cognato Dicembre pose. Ella visse sedici anni e mezzo”.
A riportare alla luce
questa storia è uno studio condotto da Anna Pasqualini, docente di
Antichità romane per oltre 40 anni tra l’università dell’Aquila e quella di Tor
Vergata. Analizzando lo sterminato corpus di epigrafi latine ritrovate nei
territori in cui si estendeva l’impero (in tutto circa 180 mila), l’archeologa
ha ricostruito una serie di casi di femminicidio dell’antica Roma. Un’indagine
che mostra come la nostra società - in tema di violenza sulle donne - non sia
poi così cambiata nel corso del tempo. A conferma di un retaggio culturale
difficile da sradicare e che nonostante le campagne di sensibilizzazione non pare
attenuarsi
, visto che con le 177 donne uccise nel 2013 (erano 159 nel 2012) ormai in
Italia si conta quasi un assassinio ogni due giorni.
"Ottavio Sagitta, tribuno" di Bartolomeo Pinelli, in Istoria degl'imperatori, Roma 1829
GIULIA, PONZIA E LE
ALTRE
Dall’oblio dei secoli è riemersa anche la vicenda di Giulia Maiana, che viveva nell’odierna Lione. “Donna specchiatissima uccisa dalla mano di un marito crudelissimo”, la definisce l’epitaffio commissionato dal fratello Giulio Maggiore e da suo figlio Ingenuinio Gennaro. Anche di lei si sa poco, se non che fu sposata per 28 anni ed ebbe due figli che, quando fu ammazzata, avevano 18 e 19 anni. Una lunga casistica che contempla anche casi di rapine finite nel sangue, come la piccola e “sfortunatissima Giulia Restuta, uccisa a dieci anni a causa dei gioielli” che indossava.
Bracciale con epitaffio di stalker |
«Si tratta di tutte donne della classe media, le cui famiglie potevano
permettersi almeno una piccola epigrafe» spiega Pasqualini. «Possiamo presumere
tuttavia che nelle fasce più povere della società la situazione fosse ancora
peggiore, visto che storicamente i comportamenti degli strati superiori si
riflettono sempre all’ennesima potenza in quelli inferiori».
Non mancano nemmeno casi di femminicidio che vedono
protagonisti personaggi celebri o donne ricche, tanto da essere citati perfino
dagli autori classici. E se nelle sue Confessioni Agostino di Ippona
riferisce delle numerose donne che addosso “portavano segni di percosse che ne
sfiguravano addirittura l’aspetto”, lo storico Tacito racconta negli Annali la
storia di Ponzia Postumina, vissuta al tempo di Nerone, indotta “con ricchi
doni all’adulterio” dal tribuno della plebe Ottavio Sagitta e poi ammazzata al
termine di una notte di passione trascorsa fra “litigi, preghiere, rimproveri,
scuse ed effusioni”. Riconosciuto colpevole, Sagitta fu condannato per omicidio
all’esilio su un’isola e dopo 13 anni - nel 70 dopo Cristo - poté rientrare a
Roma grazie alla revoca del bando emesso nei suoi confronti.
Chi invece scampò del
tutto alla condanna - probabilmente grazie agli agganci politici - fu il
retore Erode Attico (la vicenda è raccontata da Filostrato nelle
Vite dei sofisti), che fece picchiare dal proprio liberto Alcimedonte la moglie
Annia Regilla, colpevole ai suoi occhi di chissà quale mancanza. La donna,
all’ottavo mese di gravidanza, morì a causa di parto prematuro indotto dalle
percosse ma Erode, portato in giudizio dal cognato Bradua, fu assolto per
insufficienza di prove.
Una storia che
ricorda da vicino quella di Poppea, moglie di Nerone, anche lei
morta durante la gravidanza a causa di un calcio in ventre sferratole
dall’imperatore, che peraltro aveva già fatto uccidere la madre Agrippina
e la prima moglie Ottavia.
DIVORZIO E STALKING
AL TEMPO DELL’IMPERO
Su alcuni aspetti, però, la società romana era assai più avanzata della nostra. E se la Repubblica italiana ha dovuto attendere fino al 1970 per vedere l’introduzione del divorzio, nell’antica Roma bastava che uno dei due coniugi dichiarasse conclusa la “affectio maritalis” (la volontà di essere sposati) perché il matrimonio venisse sciolto. Circostanza ricorrente nelle classi agiate, come mostrano i casi di molte donne cantate da poeti - dalla Lesbia di Catullo alla Cinzia di Properzio - che cambiavano marito a ogni piè sospinto ed erano molto libere. Anche sessualmente, come mostra il caso di Eppia, moglie di un senatore dell’età di Nerone che - racconta Giovenale - lasciò la famiglia e fuggì con un gladiatore di cui si era innamorata.
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Le donne ricche infatti non avevano peso politico
né diritto di voto ma dal punto di vista economico erano abbastanza
privilegiate: potevano ricevere eredità proprio come gli uomini e possedere
beni in proprio, anche se avevano bisogno di un tutore maschio. Sebbene, con
vari escamotage, riuscissero ad avere una quasi completa libertà d’azione. E se
in epoca repubblicana l’ideale muliebre prevedeva che la donna si limitasse a
badare alla casa, ad allevare i figli e a dedicarsi al lavoro della lana, in
età imperiale acquisirono margini di autonomia abbastanza ampi, tanto che
durante il principato di Augusto c’erano anche quelle che esercitavano
l’attività di avvocato.
Insomma, una società in cui la violenza era
incomparabile rispetto ai nostri standard ma anche così evoluta da prevedere -
a partire dal II secolo avanti Cristo - una legge per perseguire il
corteggiamento troppo insistente: si chiamava edictum de adtemptata
pudicitia e a suo modo può essere considerato l’antenato dello stalking.
Un reato meno grave, però, se la vittima era una schiava, vestiva come tale o
come una prostituta (a prescindere se lo fosse effettivamente).
Segno, osserva
Pasqualini, che già in epoca romana la presunta provocazione femminile dovuta
all’abbigliamento costituiva per l’uomo quella discolpa che ancora oggi viene
invocata ( e a volte
riconosciuta
) nei tribunali. D’altronde di che meravigliarsi, se fino al 1981 il codice
penale in Italia ancora riconosceva delle attenuanti al delitto d'onore?
Commovente, oltre che interessante. Non sapevo nulla di queste epigrafi che, diversamente da altre iscrizioni, tramandano un aspetto poco noto dell'antichità, lontano dalle più frequenti celebrazioni del valore dei personaggi, della loro potenza, della loro saggezza e magniloquenza. In questi documenti c'è la notizia della vittima, ma anche del suo carnefice; non ci sono troppi dettagli, ma tutto parla di un fenomeno che, in duemila, anni è rimasto tristemente simile a se stesso. Dalle epigrafi si percepisce l'inconsolabile dolore dei familiari, i quali, segnati per sempre da un'esperienza straziante, indicano ai lapicidi le parole da scrivere per affidare all'eternità il ricordo di un fatto innaturale e cruento, definitivo. Il dolore è mediato dall'azione del lapicida, infatti la lavorazione dell'epigrafe è il momento in cui la sofferenza personale, intima, viene affidata al gesto di un estraneo, ad un artigiano abile (pagato), e diventa, in qualche modo, pubblica. La tecnica, i movimenti di routine, ripetuti chissà quante volte per incidere nella materia dura le lettere dritte e proporzionate, prendono in consegna un sentimento, una condizione, e li fissano sul marmo, per sempre. Ci sono due piani, dunque: quello di chi vive in prima persona e quello di chi partecipa. Quello dei committenti dell'epigrafe, profondamente addolorati, e quelo della pietra, inerte, sulla quale restano per sempre il ricordo perpetuo di un grande dolore, l'incredulità, la rabbia e la desolazione. La mia idea è andata all'atto dello "scrivere" dei giornalisti di oggi, i quali, professionalmente e spesso comunque sentitamente, informano, tramandano, raccontano, partecipano, ma, in certi casi, scavano fin troppo nelle vite di vittime e carnefici, in nome dell'informazione, per cercare chissà quali ragioni, così come fa, talvolta la gente comune che, molto esposta alla voce dei media, si appassiona ai drammi confondendo la realtà con il gossip. Preferisco i lapicidi, la loro lentezza, il loro relativo scarso coinvolgimento, e mi chiedo quante lapidi siano andate perdute (come rileva l'articolo), o non siano mai state incise. Un breve pensiero a coloro che vivono il dramma da parenti del carnefice: anche il loro è un dramma.
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