Dalla
Somalia al Senegal, 125 milioni di donne sono vittime di una pratica ancestrale
che umilia la femminilità e boicotta la parità di genere. Oggi sono loro le
prime a dire basta. Ve lo raccontiamo con una mappa interattiva, che va dritta
al cuore di questa ferita.
di
Emanuela Zuccalà
Lo strazio
della mutilazione genitale esplode nella banalità di una stanza qualunque, o
nella capanna buia di un villaggio. Una lametta comprata al mercato, un
coltello affilato, un vetro rotto. A volte ago e filo, oppure le spine di un
rovo selvatico. Le donne di casa tengono ferma la bambina, mentre
un’estranea viene pagata per infliggerle un dolore che non dimenticherà mai
più. La piccola resterà immobile per settimane, ad attendere che la ferita
si rimargini e pregando che non s’infetti.
Per oltre 125 milioni
di donne nel mondo, il passaggio dall’infanzia all’età adulta è marchiato con
il sangue.
Dal taglio del clitoride al raschiamento delle piccole labbra, fino alla
rimozione di tutti i genitali esterni e a una stretta cucitura che lascia solo
un piccolo foro per il flusso mestruale e le urine, da lacerare la prima notte
di nozze. Un rito ineluttabile, in certe società, che “purifica” le donne dalla
loro stessa femminilità, le sottomette nella sofferenza rendendole vergini a
vita, refrattarie al piacere sessuale e dunque – questo, in genere, il
sillogismo – mogli devote e fedeli.
Secondo i dati dell’Unicef e dell’Organizzazione mondiale della
Sanità, le vittime sono concentrate in 29 Paesi del mondo: a eccezione
di Yemen e Iraq, gli altri si trovano tutti in Africa.
Nel 1993 la
Conferenza mondiale sui diritti umani a Vienna sancì per la prima volta che le
mutilazioni genitali femminili (Mgf) sono tra le più brutali forme di violenza
di genere, affrancandole dallo status – esotico, troppo distante da noi – di
“pratiche tradizionali dannose”. È per questo che oggi, 25 novembre,
Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne,
ci concentriamo sulla sofferenza e sull’umiliazione del “taglio” nel continente
africano. Attraverso la mappa interattiva che vedete più sotto – frutto di
un’inchiesta di data journalism che incrocia dati delle agenzie Onu
Unicef e Unfpa, dell’Oms, del Dipartimento di Stato Usa, dell’ex Agenzia
britannica di confine (Ukba) e di varie Ong -
potrete esplorare la diffusione e le declinazioni locali di un’usanza
ancestrale tuttora intrisa di falsi luoghi comuni, che oscillano tra una
pena sterile verso le vittime e il disprezzo di una pratica liquidata in fretta
come retaggio di un mondo selvaggio.
E invece sono state
proprio loro, le donne africane, le prime a spiegare al mondo che, tagliando
via pezzi di intimità, si tocca l’apice dell’abuso di genere suggellando la
subalternità delle donne. In Somaliland, uno Stato non riconosciuto
dalla comunità internazionale ma che ha identiche tradizioni della confinante
Somalia in guerra, Edna Adan Ismail combatte da 40 anni: ostetrica, poi
first lady e ministra, negli anni Settanta fu la prima nella regione a parlare
apertamente di un tema tanto tabù e oggi, a 78 anni, dirige l’ospedale
che porta il suo nome nella capitale Hargeisa, alleviando le
sofferenze di giovani tagliate e cucite che a ogni parto rischiano la vita.
Su un’altra sponda
del continente, in Benin, lotta Isabelle Ekue Tevoedjre, 85 anni, fondatrice
del locale Comitato Inter-Africano (Iac) sulle pratice tradizionali dannose. In
Egitto, l’avvocatessa Reda el-Danbouki è stata la principale artefice della prima condanna per il crimine di Mgf nella storia del
Paese, nel gennaio del 2015. E in Mali Fatoumata Coulibaly, regista,
attrice e attivista, nel 2004 ha scioccato il Festival di Cannes con il film
Moolaadé che mostra il dramma delle MGF.
La nostra mappa
si spinge oltre i 27 Paesi africani indicati dall’Unicef e dall’Oms, perché
altrove – come in Ruanda e Zimbabwe – altri report americani e inglesi indicano
che la pratica esiste, seppure molto circoscritta. Mentre in Stati come
Marocco e Tunisia, sebbene la Mgf sia totalmente estranea alla cultura, si sono
scatenati dibattiti accesi.
La battaglia delle
donne africane ha raggiunto risultati importanti, ma la strada da percorrere è
ancora lunga. La vittoria più recente è datata 5 maggio 2015, quando la
Nigeria è stata l’ultima nazione africana ad approvare una legge federale che
dichiara la Mgf un reato. Un passo epocale, perché compiuto da uno dei
Paesi più popolosi del continente e la speranza è che possa incoraggiare gli
altri 6 Stati africani ancora privi di una legge a dotarsene presto. Il
progresso verso la liberazione delle donne dal taglio, sottolinea l’agenzia Onu
Unfpa, ha infatti bisogno di un’accelerazione: dal 2005 al 2010 il declino
in Africa è stato solo del 5%. Di questo passo, toccherà attendere un
nebuloso 2074 per festeggiare il dimezzamento del fenomeno.
Quale sarà, allora,
la strategia vincente per il futuro? “Che voi occidentali ci sosteniate nella
battaglia” afferma Edna Adan Ismail “perché ormai non è un problema solo
africano. Con l’immigrazione, le ragazze tagliate stanno nelle vostre scuole,
nei vostri ospedali: il mondo condivide il nostro dolore, e deve
condividere anche le responsabilità. Voi, che siete stati capaci di andare
sulla Luna, non riuscite ad aiutare le donne africane a debellare un’usanza che
le porta alla morte. Chiediamo una collaborazione, da parte vostra, che sia
profondamente umana, non fatta solo di slogan”.
UNCUT:
UN PROGETTO PER LE DONNE D’AFRICA
Questa
inchiesta di datajournalism fa parte del progetto multimediale UNCUT sulle mutilazioni genitali femminili,
realizzato grazie all’“Innovation in Development Reporting Grant Program”
dello European Journalism Centre (EJC) e alla Bill & Melinda Gates
Foundation, in collaborazione con ActionAid e Zona.
Sul Corriere
Sociale potete consultare una mappa interattiva della diffusione di
questa ferita anche in Europa.
Per informazioni su UNCUT: zona.org
Su Twitter: #uncutproject
di
Emanuela Zuccalà
Foto: Simona Ghizzoni
Mappa: Alessandro D’Alfonso
Ricerca dati: Emanuela Zuccalà, Valeria De Berardinis
Sul Corriere Sociale potete consultare una mappa interattiva della diffusione di questa ferita anche in Europa.
Per informazioni su UNCUT: zona.org
Su Twitter: #uncutproject
Foto: Simona Ghizzoni
Mappa: Alessandro D’Alfonso
Ricerca dati: Emanuela Zuccalà, Valeria De Berardinis
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